Sentenza n. 73 del 2024

SENTENZA N. 73

ANNO 2024

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da:

Presidente: Augusto Antonio BARBERA

Giudici: Franco MODUGNO, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge 20 marzo 1975, n. 70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente), promosso dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento vertente tra l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) e L. V., con ordinanza del 5 aprile 2023, iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell’anno 2023.

Visti gli atti di costituzione dell’INAIL e di L. V., nonché gli atti di intervento della Federazione legali del parastato (FLEPAR) e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udita nell’udienza pubblica del 6 febbraio 2024 la Giudice relatrice Maria Rosaria San Giorgio;

uditi gli avvocati Marcello Cecchetti per FLEPAR, Massimo Luciani e Antonio Pileggi per L. V., Gioia Vaccari per INAIL e l’avvocato dello Stato Fabrizio Urbani Neri per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 7 marzo 2024.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 5 aprile 2023, iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2023, il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge 20 marzo 1975, n. 70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente), nella parte in cui, nell’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità assurta a diritto vivente, non consente che la quota delle competenze e degli onorari giudizialmente liquidati in favore degli enti pubblici non economici e attribuita, ai sensi dell’art. 26, quarto comma, della stessa legge, agli appartenenti al ruolo professionale legale da essi dipendenti, sia computata, neanche in parte, nel calcolo dell’indennità di anzianità a costoro spettante.

1.1.– Il rimettente riferisce che nel giudizio pendente dinnanzi a sé l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) ha chiesto condannarsi un proprio dipendente dell’area professionale legale collocato a riposo alla restituzione di una parte di quanto allo stesso corrisposto a titolo di indennità di anzianità, sul presupposto che nel calcolo di tale trattamento erano state indebitamente considerate le competenze e gli onorari giudizialmente liquidati a favore dell’Istituto e attribuiti all’avvocato ai sensi dell’art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975.

A sostegno della domanda di ripetizione di indebito – prosegue il giudice a quo – l’INAIL ha dedotto che, dopo la liquidazione dell’indennità di anzianità, effettuata, peraltro con riserva, nei termini suddetti, «aveva dovuto prendere atto» che la Corte di cassazione, sezioni unite civili, con la sentenza 25 marzo 2010, n. 7158, aveva affermato che dalla base di calcolo del trattamento di fine servizio per i dipendenti degli enti pubblici non economici (cosiddetto parastato) dovessero escludersi le voci retributive diverse dallo stipendio tabellare e dalla sua integrazione mediante scatti di anzianità o componenti retributive similari e dovevano ritenersi abrogate o illegittime, e comunque non applicabili, le disposizioni dei regolamenti che prevedevano, ai fini del trattamento di fine rapporto o di quiescenza comunque denominato, il computo delle competenze a carattere fisso e continuativo.

Il rimettente ha, quindi, ricostruito con dovizia di riferimenti l’evoluzione della normativa e della cornice giurisprudenziale nella quale si è inserita la citata pronuncia nomofilattica, ricordando che, anteriormente alla riforma sulla privatizzazione del pubblico impiego, il giudice amministrativo, cui spettava la giurisdizione sui trattamenti di fine servizio in questione, riteneva che la nozione di stipendio complessivo in godimento comprendesse anche gli onorari e le competenze di cui all’art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975, intravedendo in tali spettanze il corrispettivo naturale e continuativo dell’attività di patrocinio svolta dal dipendente in favore dell’ente e, dunque, una componente ordinaria della retribuzione.

Il giudice a quo ha, quindi, osservato che l’interpretazione della normativa in esame è «radicalmente mutat[a]» allorquando la giurisdizione in materia è stata attribuita al giudice ordinario, ricordando, in particolare, che nella giurisprudenza di legittimità formatasi sulla base di calcolo dell’indennità di anzianità per i dipendenti degli enti pubblici non economici si sono delineati orientamenti contrapposti.

Secondo un primo indirizzo interpretativo, ai dipendenti in servizio alla data di entrata in vigore della legge n. 70 del 1975 continuava ad applicarsi la disciplina prevista dagli artt. 5 e 31 del previgente decreto ministeriale 30 maggio 1969 di approvazione del «Regolamento per il trattamento di previdenza e di quiescenza del personale a rapporto d’impiego», a condizione che assicurasse un trattamento di maggior favore. Le stesse pronunce affermavano che la nozione di retribuzione contemplata dalle citate disposizioni regolamentari coincidesse con quella onnicomprensiva recepita dall’art. 2121 del codice civile, nella quale rientravano tutte le voci fisse e continuative, dovendosi intendere per tali tutte le componenti retributive non meramente contingenti, non caratterizzate, cioè, da occasionalità, transitorietà o saltuarietà.

Un diverso orientamento osservava che, in seguito all’entrata in vigore dell’art. 13 della legge n. 70 del 1975, normativa con la quale si era inteso razionalizzare ed omogeneizzare il trattamento economico e normativo del parastato, la nozione di stipendio annuo complessivo in godimento, assunta dalla citata previsione a base di calcolo dell’indennità di anzianità, doveva intendersi nel senso di paga tabellare, non comprensiva, cioè, di tutti gli altri emolumenti erogati con continuità e a scadenza fissa. Doveva, inoltre, escludersi la perdurante operatività della previgente disciplina regolamentare, né poteva ritenersi applicabile quella dettata dall’art. 2120 cod. civ., la quale, per i dipendenti in servizio al 31 dicembre 1995, era condizionata, ai sensi dell’art. 69, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), all’intervento, non ancora realizzato, della contrattazione collettiva nazionale, restando ferma, in mancanza, la normativa in materia di trattamento di fine servizio vigente al momento della cessazione del rapporto.

Il Tribunale di Roma ha, quindi, ricordato che il contrasto interpretativo è stato composto dalla richiamata sentenza delle sezioni unite civili n. 7158 del 2010, alle cui enunciazioni – con particolare riguardo alla puntualizzazione secondo la quale l’art. 13 della legge n. 70 del 1975 pone una disciplina inderogabile da interpretarsi restrittivamente, anche con riferimento al concetto di «stipendio complessivo» dalla stessa menzionato – la giurisprudenza successiva ha dato continuità.

Tanto premesso, il giudice rimettente ritiene «del tutto acquisito al cd. diritto vivente» che nella base di calcolo dell’indennità di anzianità spettante ai dipendenti del parastato vadano considerati soltanto lo stipendio base e gli scatti o incrementi strettamente dipendenti dall’anzianità di servizio, senza che possa invocarsi la diversa disciplina dettata dai regolamenti o dai contratti collettivi, e che, quindi, tra le voci retributive computabili non può essere inclusa la “quota onorari” solo perché tale componente dipende anche dall’anzianità di servizio. Inoltre, detto compenso, pur essendo presumibilmente continuativo, non è fisso.

Il giudice a quo ritiene che, in presenza di un orientamento ermeneutico assurto a diritto vivente, una diversa ricostruzione dell’istituto, anche se sorretta da una interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina rilevante, si rivelerebbe inutile, anche in considerazione della tendenza del giudice di legittimità ad evitare, a garanzia del legittimo affidamento, mutamenti di indirizzo non prevedibili.

Il rimettente passa, quindi, in rassegna una serie di possibili argomentazioni di segno contrario, per porne in rilievo l’inidoneità a sostenere una soluzione ermeneutica diversa da quella costruita dalla giurisprudenza di legittimità su «solide e non superabili basi testuali e sistemiche».

Lo stesso giudice a quo reputa, invece, impossibile superare in via interpretativa il contrasto di tale diritto vivente con la Costituzione, specie «sul piano della razionalità/ragionevolezza giuridica».

1.2.– La nozione restrittiva di stipendio, argomenta il giudice a quo, «pur plausibilmente tratta dalla prassi normativa del settore», si rivelerebbe, infatti, irragionevolmente formalistica, specie in relazione alla disciplina del parastato, in base alla quale l’indennità di anzianità non ha struttura contributiva, ma è a carico dell’ente datore di lavoro, né si rinviene, rispetto a tale trattamento, una regola espressa di tassatività legale analoga a quella posta dagli artt. 3 e 38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), per l’indennità di buonuscita, e dagli artt. 4 e 11 della legge 8 marzo 1968, n. 152 (Nuove norme in materia previdenziale per il personale degli Enti locali), per l’indennità premio di servizio.

Osserva, al riguardo, il rimettente, che, nel contesto normativo in cui si è inserita la legge n. 70 del 1975, da un lato, i trattamenti economici del personale erano stabiliti in via regolamentare dagli stessi enti pubblici datori di lavoro e il concetto di stipendio «non era ancorabile ad una predefinita prassi di tipizzazione legale delle voci computabili» e, dall’altro, con l’art. 26 della legge citata, anticipando un sistema che sarebbe stato generalizzato dapprima con la legge 29 marzo 1983, n. 93 (Legge quadro sul pubblico impiego) e, in seguito, con «la riforma del pubblico impiego degli anni ’90», l’assetto dei trattamenti economici era rimesso, nella sostanza, alla contrattazione collettiva.

Assume, ancora, il giudice a quo che una lettura restrittiva come quella accolta dalla giurisprudenza di legittimità avrebbe potuto comprendersi in un «sistema di tassatività legale» delle voci computabili ai fini della determinazione dei trattamenti di fine servizio, ma non certo in un ambito normativo in cui, al contrario, tali trattamenti «non sono mai stati stabili e qualificati dalla legge».

La disciplina censurata, continuando ad agganciare la base di calcolo dell’indennità di anzianità «ad un dato formale del 1975», così escludendo che su di essa possa incidere la contrattazione collettiva – alla quale, tuttavia, nell’attuale contesto la stessa legge attribuisce «il dominio […] sugli assetti dei trattamenti economici» –, rivelerebbe una intrinseca irrazionalità.

1.3.– Il giudice a quo ritiene che gli onorari in esame non costituiscano una componente retributiva accessoria o secondaria. Di ciò si avrebbe conferma attraverso l’art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975, il quale dimostra «in modo unico ed eccezionale» che ai legali degli enti parastatali spetta una percentuale delle competenze e degli onorari, quale «naturale corrispettivo» «del tipo di attività» svolta, spettanze che non potrebbero essere introitate integralmente dall’ente datore di lavoro per il solo fatto che il difensore che lo rappresenta in giudizio percepisca uno stipendio, poiché per tale patrocinio lo stesso ente non sopporta alcun esborso.

Il rimettente evidenzia, ancora, che la “quota onorari” maturata dalla parte resistente nell’ultimo anno di servizio rappresenta il sessantacinque per cento del suo trattamento economico parametrico di attività, con la conseguenza che, in caso di mancato computo della stessa ai fini dell’indennità di anzianità, risulterebbe più conveniente l’opzione per il trattamento di fine rapporto, opzione che, tuttavia, lo stesso resistente «evidentemente non ha esercitato perché quando è cessato dal servizio era del tutto pacifico, in base alla giurisprudenza amministrativa all’epoca formatasi, ed anche per l’Inail, che la “quota onorari” fosse computabile nell’indennità di anzianità, e per intero».

Il giudice a quo ricorda, quindi, che, come confermato dalla giurisprudenza costituzionale, i trattamenti di fine servizio, costituendo una forma di retribuzione differita, sono presidiati dall’art. 36 Cost., con la conseguenza che nel relativo computo deve essere osservato un ragionevole criterio di proporzione alla qualità e quantità del lavoro prestato e, «per esso, pare implicarsi, al trattamento di attività».

Lo stesso rimettente osserva, quindi, che, sebbene una ricorrente enunciazione della giurisprudenza costituzionale precisi che il rispetto dell’art. 36 Cost. debba essere valutato in rapporto al trattamento nel suo complesso, nella sentenza n. 243 del 1993 questa Corte ha desunto la illegittimità costituzionale della mancata considerazione, nel calcolo della indennità di anzianità, dell’indennità integrativa speciale dalla notevole incidenza assunta da tale componente rispetto al trattamento economico complessivo.

Viene, quindi, ricordata la sentenza n. 159 del 2019, con la quale questa Corte ha chiarito che la natura di retribuzione differita dei trattamenti di fine servizio è avvalorata dalla correlazione della misura delle prestazioni alla durata del servizio e alla retribuzione di carattere continuativo percepita in costanza di rapporto e che, anche per tale emolumento, deve essere osservato il canone di proporzionalità imposto dall’art. 36 Cost., anche mediante una tendenziale, progressiva assimilazione alle regole del lavoro privato, nella quale un ruolo fondamentale assume la contrattazione collettiva.

1.4.– Ad avviso del giudice a quo, sarebbe violato anche il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in quanto risulterebbe ingiustificata la diversità della posizione di un dipendente dell’INAIL appartenente al ruolo professionale legale rispetto a quella di un altro dipendente di livello superiore, come ad esempio un dirigente, il quale, pur godendo di un trattamento economico pari a quello accordato al primo, percepisce un’indennità di anzianità maggiore soltanto perché, non svolgendo funzioni legali, non percepisce una quota delle competenze di cui all’art. 26 della legge n. 70 del 1975 e «tutto il suo trattamento economico consiste in stipendio e scatti» e «la contrattazione collettiva continua a non regolare la materia nel suo complesso, né si è mai curata […] di chiamare “stipendio a percentuale” la “quota onorari”».

1.5.– In ultimo, il giudice rimettente, a sostegno della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, deduce che, in assenza di «un intervento modificativo da parte della Corte costituzionale», la domanda restitutoria avanzata dall’INAIL sarebbe «meritevole di accoglimento», posto che l’ulteriore tema dedotto nel giudizio principale – coincidente con la lesione del legittimo affidamento ingenerato nel resistente dall’interpretazione della disposizione in esame seguita anteriormente all’arresto nomofilattico del 2010 – risulterebbe supportato da argomentazioni non decisive alla luce delle enunciazioni contenute nella sentenza n. 8 del 2023 di questa Corte.

2.– Nel presente giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi l’inammissibilità e comunque la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.

2.1.– La difesa statale eccepisce, anzitutto, che le censure di illegittimità costituzionale investono non tanto il contenuto della disposizione in scrutinio, quanto l’interpretazione datane dal diritto vivente e segnatamente da una serie di pronunce di legittimità dalle quali il rimettente potrebbe discostarsi con adeguata motivazione.

Inoltre, l’Avvocatura ritiene che le questioni sollevate siano formulate genericamente. Sebbene la “quota onorari” di cui viene denunciata la mancata considerazione, da parte dell’art. 13 della legge n. 75 del 1970, ai fini del calcolo dell’indennità di anzianità, costituisca solo una delle componenti del «variegato genus delle indennità integrative e/o accessorie, riconosciute in attività ai dipendenti degli enti pubblici non economici», le censure del rimettente non investirebbero la nozione di retribuzione complessiva, comprensiva, cioè, di tutte le diverse indennità.

2.2.– Nel merito, la difesa dello Stato assume la non fondatezza della questione sollevata in riferimento all’art. 36 Cost., osservando che la nozione di «stipendio complessivamente in godimento» che l’art. 13 della legge n. 70 del 1975 pone a base del computo dell’indennità di anzianità costituisce una misura proporzionale al lavoro svolto e sufficiente al mantenimento dignitoso del lavoratore e della sua famiglia, a prescindere dai criteri di computo e dall’ammontare delle singole voci.

Sarebbe destituita di fondamento anche la censura con la quale è denunciato il vulnus all’art. 3 Cost. per la disparità di trattamento tra i professionisti legali dell’INAIL e i dirigenti dello stesso ente, non essendo le due categorie poste a confronto sottoposte alla medesima disciplina.

3.– Nel presente giudizio si è costituito anche l’INAIL, ricorrente nel processo principale, chiedendo dichiararsi l’inammissibilità e comunque la non fondatezza delle questioni.

3.1.– L’Istituto imputa, anzitutto, al giudice rimettente di non avere optato per l’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione in scrutinio, dallo stesso ritenuta plausibile, ma non percorribile in quanto in contrasto con il principio di diritto espresso dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione nella ricordata sentenza n. 7158 del 2010.

A tal fine, la parte osserva che una questione di legittimità costituzionale può ritenersi ammissibile soltanto laddove una soluzione ermeneutica costituzionalmente compatibile risulti impossibile o comunque ardua da sostenere.

Le odierne censure sarebbero inammissibili anche perché il giudice a quo avrebbe omesso ogni deduzione in ordine al profilo della provenienza da terzi delle somme spettanti agli avvocati degli enti pubblici non economici a titolo di onorari. L’esborso di tali spettanze è effettuato dalle parti soccombenti nelle cause in cui è parte l’ente parastatale e, per quanto riguarda l’INAIL, il relativo ammontare è attribuito al Fondo previsto dalla deliberazione del Commissario straordinario di tale istituto 25 settembre 2003, n. 788, recante il «Regolamento per la corresponsione dei compensi professionali degli avvocati», dal quale sono tratti gli importi da versare ai singoli avvocati. Per converso, l’indennità di anzianità è a totale carico dell’ente datore di lavoro.

L’INAIL ravvisa un ulteriore profilo di inammissibilità nell’avere il giudice a quo richiesto un intervento di questa Corte «di modifica» dell’art. 13 della legge n. 70 del 1975, in forza del quale il termine “stipendio”, ivi previsto come base di calcolo dell’indennità di anzianità, sia sostituito con quello di “retribuzione” complessivamente in godimento, comprensiva, quindi, degli emolumenti versati agli avvocati per onorari professionali, senza, tuttavia, considerare i compensi professionali agli stessi erogati mediante esborsi a carico dell’ente pubblico per le transazioni successive alle sentenze favorevoli o alla compensazione delle spese di lite, come stabilito dalla citata deliberazione dell’INAIL n. 788 del 2003.

L’intervento modificativo auspicato dal rimettente sarebbe inammissibile anche perché determinerebbe effetti che travalicano i limiti delle censure in scrutinio, in quanto coinvolgerebbe l’intero genus degli emolumenti integrativi o accessori riconosciuti in attività ai dipendenti degli enti pubblici non economici.

3.2.– Nel merito, l’INAIL argomenta la non fondatezza della questione sollevata in riferimento all’art. 36 Cost. richiamando la giurisprudenza costituzionale secondo la quale i criteri di sufficienza e di proporzionalità desumibili da tale precetto costituzionale sono inscindibilmente connessi, di modo che la relativa verifica esige una valutazione globale e di sintesi dell’intero assetto retributivo garantito al lavoratore, a prescindere dai criteri di computo dell’ammontare delle singole voci.

Ad avviso dell’Istituto, la nozione di stipendio complessivo in godimento – e non quella di retribuzione, comprensiva di elementi aggiuntivi e accessori –, sulla quale la disposizione in esame basa il calcolo dell’indennità di anzianità, da un lato, sarebbe coerente con il potere del legislatore di tenere conto delle esigenze di finanza pubblica e, dall’altro, non inciderebbe sulla sufficienza e sulla proporzionalità della retribuzione rispetto al lavoro svolto, dovendo la verifica di tali canoni investire il trattamento economico nella sua complessità e non le singole voci di cui si compone.

Quanto alla questione relativa alla dedotta violazione dell’art. 3 Cost., l’INAIL rileva l’assenza di adeguata motivazione a sostegno sia della censura di irragionevolezza e di irrazionalità della disposizione in scrutinio, sia della denunciata disparità di trattamento.

3.3.– Nell’imminenza dell’udienza pubblica l’INAIL ha depositato una memoria illustrativa con la quale ha confermato le conclusioni assunte nell’atto di costituzione, precisandole e corroborandole con ulteriori richiami giurisprudenziali.

4.– Si è costituito in giudizio anche L. V., resistente nel processo principale, chiedendo l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.

4.1.– La parte, dopo aver dettagliatamente descritto i termini del giudizio principale e ricomposto il quadro normativo di riferimento, ha svolto diffuse argomentazioni a sostegno dell’ammissibilità delle questioni sollevate.

4.2.– Nel merito, la parte ripercorre, prestandovi adesione, le ragioni addotte nell’ordinanza di rimessione a sostegno delle violazioni prospettate.

Quanto alla censura formulata in riferimento all’art. 36 Cost., L. V. ricorda come questa Corte abbia ricondotto le indennità di fine servizio nel «paradigma comune della retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale», costituendo detti trattamenti «una componente del compenso conquistato “attraverso la prestazione dell’attività lavorativa e come frutto di essa” (sentenza n. 106 del 1996)» (vengono citate, in particolare, le sentenze n. 159 del 2019 e n. 130 del 2023).

Alla luce di tale inquadramento, la disciplina dei trattamenti di fine servizio, per essere rispettosa dei principi enunciati dall’art. 36 Cost., dovrebbe garantire la proporzionalità tra detti emolumenti e la retribuzione di carattere continuativo percepita dall’avente diritto in costanza di rapporto di lavoro.

L’esclusione della “quota onorari” dalla base di calcolo dell’indennità di anzianità sancita dall’interpretazione dell’art. 13 della legge n. 70 del 1975 invalsa nel diritto vivente, sarebbe, pertanto, «assolutamente incomprensibile».

Gli onorari – argomenta la parte – sono parte della retribuzione ordinariamente spettante agli avvocati dell’INAIL (viene richiamata la sentenza di questa Corte n. 33 del 2009) e costituiscono una componente del loro trattamento economico complessivo fissa nell’an e variabile soltanto nel quantum.

Il contrasto con l’art. 36 Cost. della esclusione degli stessi operata dal diritto vivente si manifesterebbe con particolare evidenza nel caso in scrutinio, nel quale la “quota onorari” spettante a L. V. rappresenta oltre il cinquanta per cento del totale della retribuzione dallo stesso percepita in costanza di rapporto.

Pertanto, prosegue la parte, la mancanza di proporzionalità tra retribuzione e trattamento di fine servizio risulterebbe, nella specie, palese, avuto riguardo alle precisazioni fornite da questa Corte nella sentenza n. 243 del 1993 nel dichiarare la illegittimità costituzionale della mancata inclusione dell’indennità integrativa speciale nel computo dei trattamenti di fine servizio.

La citata pronuncia – ricorda L. V. – ha rilevato che tale voce retributiva è divenuta nel tempo sempre più consistente, così che la sua esclusione dal computo dell’indennità di fine rapporto ha provocato effetti di depauperamento di tali trattamenti sempre più significativi.

La parte ha, quindi, ripercorso le motivazioni addotte dal giudice rimettente a sostegno delle censure di irragionevolezza e irrazionalità della disposizione in scrutinio e di disparità di trattamento, corroborandole con ulteriori argomenti di segno adesivo.

Viene, infine, evidenziato che l’interpretazione nomofilattica oggetto di censura ha anche determinato la lesione, in contrasto con gli artt. 3 e 36 Cost., della legittima aspettativa della parte resistente nel giudizio a quo, la quale è oggi chiamata a restituire all’INAIL una somma (euro 272.527,70), pari a circa il settanta per cento del trattamento di fine servizio originariamente percepito, a fronte della scelta, che anteriormente alla citata pronuncia della Corte di cassazione, n. 7158 del 2010, appariva la più vantaggiosa, di non esercitare l’opzione per il trattamento di fine rapporto.

4.3.– In vista dell’udienza pubblica, L. V. ha depositato una memoria illustrativa con la quale ha confermato le conclusioni assunte nell’atto di costituzione e ha replicato alle deduzioni svolte dalla difesa statale e dall’INAIL.

5.– Nel giudizio di legittimità costituzionale ha spiegato intervento adesivo la Federazione legali del parastato - FLEPAR.

5.1.– L’interveniente ha premesso di essere un’associazione federale senza fine di lucro a carattere sindacale il cui scopo è quello di tutelare la dignità, l’autonomia professionale, lo stato giuridico, nonché i diritti economici dei legali delle associazioni aderenti, di essere costantemente presente nello svolgimento delle trattative con l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e di aver sottoscritto diversi contratti collettivi nazionali.

A fondamento della propria legittimazione a intervenire, FLEPAR ha dedotto di essere titolare di un interesse, diverso da quello legato alla rappresentanza sindacale, «profondamente conformato» dalla disposizione in esame e inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto nel giudizio principale.

A parere dell’associazione, le questioni in scrutinio involgerebbero la definizione dell’ambito riservato all’autonomia collettiva in materia di trattamento economico dei dipendenti degli enti pubblici non economici e, in particolare, la questione se, alla stregua dell’art. 13 della legge n. 70 del 1975, come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, i contratti collettivi possano disciplinare la sola retribuzione di attività, ovvero se agli stessi sia demandata anche la regolamentazione del trattamento di fine servizio.

Dal che deriverebbe, a parere dell’associazione interveniente, che, per effetto di una eventuale decisione di accoglimento, gli accordi sindacali dalla stessa sottoscritti in attuazione dell’art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 e dell’art. 9 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, «concorrerebbero a determinare anche la retribuzione differita degli avvocati dipendenti degli enti del c.d. “parastato”».

Inoltre, secondo FLEPAR, una pronuncia di accoglimento inciderebbe, al contempo, sulla contrattazione collettiva futura e, in particolare, sul modo in cui l’associazione interveniente, così come le altre organizzazioni sindacali, «dovranno modulare la propria attività per il tempo a venire».

5.2.– Nel merito, l’interveniente ha chiesto accogliersi le questioni di legittimità costituzionale sollevate, svolgendo articolate argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili, dal punto di vista contenutistico, a quelle sviluppate dalla parte resistente nel giudizio a quo.

5.3.– Tali deduzioni sono state ulteriormente precisate mediante la memoria illustrativa depositata nell’imminenza dell’udienza pubblica.

6.– In ultimo, il 20 luglio 2023 l’Associazione nazionale avvocati e procuratori Inps – FLEPAR INPS ha depositato un’opinione scritta quale amicus curiae di segno adesivo alle censure svolte dal giudice rimettente.

6.1.– L’associazione ha premesso di aderire alla Confederazione di dirigenti della Repubblica – CODIRP, che rappresenta i dirigenti delle funzioni centrali, dell’Area di istruzione e ricerca e della sanità, di non perseguire fini di lucro e di avere carattere apartitico e sindacale.

L’amicus curiae ha fatto, inoltre, rilevare che tra gli scopi istituzionali consacrati nel proprio statuto vi è quello di tutelare e garantire il carattere, le prerogative e le funzioni professionali dell’avvocatura istituzionale, nonché di salvaguardare gli interessi morali ed economici degli avvocati dell’INPS.

6.2.– L’associazione ha, quindi, svolto argomentazioni a sostegno sia dell’ammissibilità sia della fondatezza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, soffermandosi, in particolare, sulla natura di retribuzione differita dell’indennità di anzianità di cui al censurato art. 13 della legge n. 70 del 1975 e sulla contrarietà al principio di proporzionalità ex art. 36 Cost. e irragionevolezza della mancata inclusione della “quota onorari” nel calcolo di tale trattamento.

6.3.– L’opinione è stata ammessa con decreto del Presidente della Corte del 27 dicembre 2023.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge n. 70 del 1975 – nell’interpretazione datane dalla giurisprudenza di legittimità, costituente diritto vivente –, nella parte in cui non consente che la quota delle competenze e degli onorari giudizialmente liquidati in favore degli enti pubblici non economici, attribuita dall’art. 26, quarto comma, della stessa legge agli appartenenti al ruolo professionale legale da essi dipendenti, sia computata, neanche in parte, nel calcolo dell’indennità di anzianità a costoro spettante.

Alla stregua del principio di diritto enunciato dalla sentenza delle sezioni unite civili della Corte di cassazione n. 7158 del 2010, infatti, la nozione di retribuzione che la disposizione in scrutinio pone a base del computo della suddetta indennità coincide con il solo stipendio tabellare e la sua integrazione mediante scatti di anzianità o componenti retributive similari, con esclusione di ogni altro emolumento accessorio, e non è derogabile dalla fonte regolamentare, né dall’autonomia collettiva.

1.1.– A giudizio del rimettente, così restrittivamente interpretata, la previsione censurata presenta, anzitutto, un difetto di ragionevolezza e di razionalità, in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto pone una disciplina irragionevolmente formalistica e non modificabile dalla contrattazione collettiva, nonostante la stessa legge n. 70 del 1975 riservi proprio alla fonte negoziale la regolamentazione del trattamento economico di attività.

1.2.– L’interpretazione dell’art. 13 della legge n. 70 del 1975 cristallizzata dal diritto vivente realizzerebbe, altresì, una ingiustificata disparità di trattamento tra la posizione del dipendente di un ente pubblico non economico – nella specie l’INAIL – appartenente al ruolo professionale legale e quella di un altro dipendente dello stesso ente di livello superiore, come un dirigente, il quale, pur godendo di una retribuzione pari a quella riconosciuta al primo, percepisce un’indennità di anzianità più elevata, soltanto perché, non svolgendo funzioni legali, non riceve una quota delle competenze di cui all’art. 26 della legge citata e «tutto il suo trattamento economico consiste in stipendio e scatti».

1.3.– La disciplina censurata, come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità, confliggerebbe, infine, con l’art. 36 Cost., in quanto escluderebbe «ogni ragionevole proporzione» tra l’indennità di anzianità spettante al dipendente parastatale appartenente al ruolo professionale legale e il trattamento economico di attività dallo stesso percepito nel corso e al termine della sua carriera.

2.‒ Preliminarmente, va ribadita la inammissibilità dell’intervento ad adiuvandum spiegato da FLEPAR, per le ragioni illustrate nell’ordinanza di cui è stata data lettura in udienza, allegata alla presente pronuncia.

3.– Ancora in via preliminare, deve escludersi la fondatezza delle eccezioni di inammissibilità formulate, in termini pressoché coincidenti, dal Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, e dall’INAIL, ricorrente nel giudizio principale costituitasi nel processo costituzionale.

3.1.– La difesa statale e l’INAIL rilevano, in primo luogo, che le censure di illegittimità costituzionale non investono il contenuto della disposizione in scrutinio, ma l’interpretazione datane dal diritto vivente, dalla quale, tuttavia, il giudice rimettente avrebbe potuto discostarsi con adeguata motivazione.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, in presenza di uno stabile approdo ermeneutico della giurisprudenza di legittimità, il giudice a quo, pur essendo libero di non uniformarvisi e di proporre una sua diversa ricostruzione (sentenza n. 95 del 2020), ha, in alternativa, la facoltà di assumere l’interpretazione censurata in termini di diritto vivente e di richiederne, su tale presupposto, il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali (sentenza n. 243 del 2022), senza che gli si possa imputare di non aver seguito una diversa interpretazione, più aderente ai parametri stessi (sentenza n. 180 del 2021), poiché la norma vive ormai nell’ordinamento in modo così radicato che è difficilmente ipotizzabile una modifica del sistema senza l’intervento del legislatore o di questa Corte (sentenze n. 141 del 2019 e n. 191 del 2016).

Nel caso di specie, l’esistenza di un diritto vivente è da ritenersi incontestabile – posto che il significato della disposizione qui censurato è stato indicato dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione mediante un’interpretazione poi stabilizzatasi nella giurisprudenza di legittimità –, così che del tutto plausibilmente il rimettente ha ritenuto inutile proporre una diversa esegesi con esso incompatibile.

3.2.– Non è fondata neppure l’eccezione con la quale l’Avvocatura generale dello Stato e l’INAIL imputano al giudice a quo di avere comunque prospettato una soluzione ermeneutica diversa da quella nomofilattica, senza, tuttavia, farla propria, ma chiedendo a questa Corte, alternativamente, di avallarla attraverso una pronuncia di rigetto ovvero di dichiarare l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, ove interpretata secondo il diritto vivente.

Il rimettente mostra, al contrario, di condividere, «sul piano delle tecniche dell’esegesi ordinaria», la ricostruzione assurta a diritto vivente, ritenendola sorretta da «solide e non superabili basi testuali e sistemiche», e tuttavia dubita che il significato dalla stessa attribuito alla previsione in scrutinio sia compatibile con i precetti costituzionali evocati.

3.3.– Non merita accoglimento neanche il rilievo di inammissibilità a sostegno del quale il Presidente del Consiglio dei ministri e l’INAIL deducono che il giudice a quo non avrebbe considerato che l’emolumento di cui auspica l’inclusione nella base di calcolo dell’indennità di anzianità costituisce soltanto una delle componenti del «variegato genus delle indennità integrative e/o accessorie, riconosciute in attività ai dipendenti degli enti pubblici non economici».

La limitazione della richiesta additiva agli onorari ex art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 risulta, invece, coerente con il thema decidendum del giudizio principale, in cui oggetto di discussione è la mancata considerazione di tale specifica componente retributiva ai fini del computo dell’indennità di anzianità liquidata ad un dipendente del ruolo professionale legale dell’INAIL collocato a riposo.

3.4.– Deve essere, ancora, disattesa l’eccezione con la quale l’INAIL contesta l’incompletezza del petitum additivo, sul rilievo che nella integrazione normativa auspicata dal rimettente non sarebbero compresi i compensi professionali per le transazioni successive alle sentenze favorevoli o alla compensazione delle spese di lite previsti dalla richiamata deliberazione del Commissario straordinario dell’INAIL n. 788 del 2003.

La circostanza che nell’atto di promovimento la “quota onorari” sia stata individuata mediante il riferimento al solo art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 non implica che il giudice a quo abbia limitato il richiesto intervento additivo alle sole competenze e agli onorari liquidati giudizialmente in favore dell’ente ivi contemplati, senza implicitamente considerare anche le successive modifiche normative che hanno ampliato l’emolumento in esame, aggiungendovi le competenze legate alle cause nelle quali l’amministrazione non sia rimasta soccombente e che siano definite con compensazione o transatte senza spese a carico della controparte.

3.5.– Da ultimo, contrariamente a quanto sostenuto dall’INAIL, il mancato sviluppo, nell’ordinanza di rimessione, di specifiche deduzioni sulla provenienza da terzi delle competenze e degli onorari di cui si tratta, investendo un aspetto di rilevanza non decisiva ai fini dell’inquadramento dell’indennità di anzianità ex art. 13 della legge n. 70 del 1975, non si traduce in un deficit motivazionale tale da comportare l’inammissibilità delle questioni sollevate.

4.– Passando all’esame del merito, allo scrutinio delle questioni di legittimità costituzionale è opportuno premettere la ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale in cui si inscrive la disciplina oggetto di censura.

4.1.– La legge n. 70 del 1975 detta una riforma organica dell’ordinamento degli enti pubblici non economici, cosiddetti parastatali, ridefinendo, tra l’altro, gli ambiti della disciplina del personale rispettivamente riservati alla legge, alla contrattazione collettiva ed ai regolamenti dei singoli enti.

4.1.1.– Per quanto riguarda il trattamento di fine servizio, le previsioni che la legge n. 70 del 1975 dedica all’indennità di anzianità per i dipendenti del parastato sono compendiate nell’art. 13, qui in scrutinio, mentre alla fonte regolamentare è rimessa la definizione di soli aspetti marginali e, in particolare, del riscatto di anni di servizio ai fini del computo dell’emolumento.

Il richiamato articolo, al primo comma, prevede che l’indennità di anzianità, che è a totale carico dell’ente pubblico non economico, spetta al personale da questo dipendente – nel quale vanno inclusi, ai sensi del terzo comma dello stesso articolo, anche i dipendenti a contratto e, proporzionalmente alla durata del servizio, il personale straordinario assunto temporaneamente per le esigenze di carattere eccezionale indicate all’art. 6 della medesima legge – «[a]ll’atto della cessazione dal servizio».

Lo stesso terzo comma dispone, inoltre, che l’indennità è determinata in misura «pari a tanti dodicesimi dello stipendio annuo complessivo in godimento, qualunque sia il numero di mensilità in cui esso è ripartito, quanti sono gli anni di servizio prestato», per tale intendendosi, ai sensi del comma successivo, «quello effettivamente prestato senza interruzione presso l’ente di appartenenza, nonché i periodi la cui valutazione ai fini stessi è ammessa esplicitamente dalle leggi vigenti, nonché i periodi di cui il regolamento del singolo ente ammetta il riscatto a carico totale del dipendente».

4.1.2.– Tale indennità compete al personale degli enti pubblici non economici non soggetti, ratione temporis, alla riforma del pubblico impiego avviata con il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e, segnatamente, ai dipendenti, già occupati alla data del 31 dicembre 1995, che non abbiano optato per la trasformazione della suddetta indennità nel trattamento di fine rapporto proprio dei lavoratori del settore privato, esercitando la facoltà loro riconosciuta dall’art. 59, comma 56, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica).

L’indennità di anzianità, al pari dell’indennità di buonuscita per i dipendenti civili e militari dello Stato disciplinata dal d.P.R. n. 1032 del 1973, e l’indennità premio di servizio per i dipendenti degli enti locali di cui alla legge n. 152 del 1968, si inscrive, pertanto, nel novero dei trattamenti di fine servizio per i dipendenti pubblici – come il resistente nel giudizio principale – soggetti alla disciplina, di matrice pubblicistica, anteriore alla privatizzazione del pubblico impiego.

4.2.– Anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 70 del 1975, il trattamento di fine servizio per i dipendenti del parastato era disciplinato dai regolamenti dei singoli enti.

Per quanto concerne l’INAIL, il regolamento per il trattamento di previdenza e di quiescenza del personale a rapporto d’impiego, approvato con d.m. 30 maggio 1969, all’art. 31, primo comma, prevedeva che «[a]ll’impiegato che cessa dal servizio con diritto alla pensione è corrisposta in aggiunta alla pensione, a carico dell’Istituto, una indennità di buonuscita di importo pari a tanti dodicesimi dell’ultima retribuzione annua spettante per quanti sono gli anni di servizio utile ai fini del trattamento di quiescenza».

La nozione di retribuzione rilevante ai fini del calcolo della buonuscita era definita dall’art. 5 nei seguenti termini: «[a]gli effetti del presente Regolamento si intende per “retribuzione” la somma delle seguenti competenze: – stipendio lordo calcolato per 15 mensilità annue; – eventuali assegni personali pensionabili, nonché altre eventuali competenze di carattere fisso e continuativo che siano riconosciuti utili ai fini del trattamento di previdenza e di quiescenza con delibera del Consiglio di amministrazione da assoggettarsi all’approvazione del Ministero del lavoro e della previdenza sociale di concerto con quello del tesoro».

4.3.– In tale cornice normativa la giurisprudenza amministrativa, alla quale, all’epoca, era devoluta la giurisdizione in materia di pubblico impiego – in seguito attribuita al giudice ordinario – affermava che le somme corrisposte ai legali dipendenti dell’INAIL «a titolo di riparto del fondo competenze di procuratore ed onorari di avvocato» dovessero essere considerate nella base di calcolo dell’indennità di buonuscita (Consiglio di Stato, sezione sesta, decisione 5 giugno 1979, n. 433).

4.3.1.– Dopo la riforma del parastato, i giudici amministrativi, riconoscendo alla nozione di «stipendio annuo complessivo in godimento» recepita dall’art. 13 della legge n. 70 del 1975 una significativa ampiezza contenutistica, hanno continuato ad includere la cosiddetta “quota onorari” di cui all’art. 26, quarto comma, della stessa legge nella base di calcolo dell’indennità di anzianità.

Si osservava che gli onorari e le competenze liquidate giudizialmente in favore dell’ente costituissero una componente ordinaria della retribuzione dei legali degli enti pubblici avente «la sua ragion d’essere nella particolare posizione funzionale dei dipendenti in questione, caratterizzata dalla duplice qualità di impiegato pubblico e di professionista legale, sottoposta in quanto tale ad uno statuto generale» (Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione prima, sentenza 19 febbraio 1986, n. 234).

La giurisprudenza amministrativa intravedeva nella “quota onorari” «la funzione di vero e proprio corrispettivo di prestazioni lavorative e [il] carattere di fissità e continuità» (Consiglio di Stato, sezione sesta, decisione 9 marzo 2000, n. 1267) e, quindi, in definitiva, una integrazione dello stipendio (Consiglio di Stato, sezione sesta, decisioni 12 maggio 1986, n. 379; 23 febbraio 1982, n. 78).

4.4.– Le prime decisioni di legittimità registratesi successivamente alla devoluzione al giudice ordinario della cognizione delle controversie sul pubblico impiego, in continuità con la precedente giurisprudenza amministrativa, hanno affermato che nella base di calcolo dell’indennità di anzianità devono essere considerate, oltre allo stipendio in senso stretto, tutte le voci retributive fisse e continuative e, dunque, per quanto concerne gli appartenenti al ruolo professionale legale, anche le competenze di cui all’art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975.

Tale orientamento muoveva dalla premessa secondo cui l’indennità di anzianità ha natura retributiva, e non previdenziale, ed esibisce una marcata affinità con l’omonimo istituto privatistico disciplinato dagli artt. 2120 e 2121 cod. civ., nella versione anteriore alle modifiche apportate dalla legge 29 maggio 1982, n. 297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica).

Secondo i giudici di legittimità, con l’istituto privatistico l’indennità ex art. 13 della legge n. 70 del 1975 condivideva anche la base di calcolo, coincidente con la nozione onnicomprensiva di retribuzione, accolta dalla giurisprudenza, inclusiva di tutti gli assegni a carattere fisso e continuativo.

In tale ampia nozione di retribuzione utile al calcolo del trattamento di fine servizio venivano incluse anche le componenti retributive correlate alla professionalità del lavoratore, non rilevando l’eventuale non definitività dell’attribuzione patrimoniale. In sintesi, ne era esclusa soltanto la retribuzione contingente, caratterizzata, cioè, dalla occasionalità, dalla transitorietà o saltuarietà (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 23 aprile 2007, n. 9551; 13 aprile 2007, n. 8923; 28 marzo 2007, n. 7596 e 20 marzo 2007, n. 6633).

4.4.1.– Successivamente, all’interno della sezione lavoro della Corte di cassazione si è delineato un orientamento di segno contrario.

Le pronunce espressive di tale nuovo orientamento sottolineavano che la legge n. 70 del 1975, da un lato, aveva demandato alla contrattazione collettiva la disciplina del trattamento economico di attività, imponendo a ciascun ente di modificare i regolamenti organici vigenti in conformità alle proprie disposizioni entro sei mesi dall’approvazione degli accordi sindacali e vietando, all’art. 26, l’introduzione, in sede di contrattazione collettiva, di emolumenti accessori o integrativi; dall’altro, per quanto concerne il trattamento di quiescenza, aveva dettato essa stessa, all’art. 13, la disciplina applicabile. In tal modo essa aveva determinato l’abolizione delle diverse deliberazioni dei consigli di amministrazione dei singoli enti, posto che la perdurante operatività dei trattamenti ivi previsti si sarebbe posta «in insanabile contrasto con la lettera e la finalità della legge di razionalizzazione ed omogeneizzazione, pena, contrariamente opinando, la completa inutilità della legge medesima» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 9 maggio 2008, n. 11603; in senso conforme, sentenze 14 luglio 2008, n. 19299; 10 luglio 2008, n. 19014; 7 luglio 2008, n. 18587; 9 maggio 2008, n. 11604 e 7 aprile 2008, n. 8984).

In aggiunta, con specifico riferimento al trattamento di fine servizio, le pronunce in esame ritenevano che la nozione di «stipendio annuo complessivo in godimento», che l’art. 13 della legge n. 70 del 1975 assume a parametro di calcolo di tale prestazione, includesse soltanto la retribuzione base, o paga tabellare, oltre al trattamento riferito all’anzianità acquisita – come reso evidente dall’uso del termine “complessivo” – con esclusione di ogni altra indennità o emolumento.

4.5.– Il contrasto interpretativo è stato composto dalle Sezioni unite civili con la sentenza n. 7158 del 2010, la quale, aderendo al secondo degli orientamenti di cui si è dato conto, ha enunciato il principio di diritto secondo il quale l’art. 13 della legge n. 70 del 1975 di riordinamento degli enti pubblici non economici e del rapporto di lavoro del relativo personale detta una disciplina del trattamento di quiescenza o di fine rapporto – rimasta in vigore, pur dopo la contrattualizzazione dei rapporti di pubblico impiego, per i dipendenti in servizio alla data del 31 dicembre 1995 che non abbiano optato per il trattamento di fine rapporto di cui all’art. 2120 cod. civ. – non derogabile, neanche in senso più favorevole ai dipendenti, costituita dalla previsione di un’indennità di anzianità pari a tanti dodicesimi dello stipendio annuo in godimento quanti sono gli anni di servizio prestato. Rimane rimessa all’autonomia regolamentare dei singoli enti solo l’eventuale disciplina della facoltà, per il dipendente, di riscattare, a totale suo carico, periodi diversi da quelli di effettivo servizio. Il riferimento, quale base di calcolo, allo stipendio complessivo annuo – hanno, inoltre, chiarito le sezioni unite della Corte di cassazione – ha valenza tecnico-giuridica, sicché deve ritenersi esclusa la computabilità di voci retributive diverse dallo stipendio tabellare e dalla sua integrazione mediante scatti di anzianità o componenti retributive similari e devono ritenersi abrogate o illegittime, e comunque non applicabili, le disposizioni di regolamenti dei singoli enti che prevedano, ai fini del trattamento di quiescenza, il computo delle competenze a carattere fisso e continuativo.

4.5.1.– La giurisprudenza successiva ha dato continuità a tali enunciazioni (Corte di cassazione, sezione sesta, sottosezione lavoro, ordinanza 25 febbraio 2011, n. 4749 e sezione lavoro, ordinanza 3 marzo 2020, n. 5892), precisando coerentemente che, nella base di calcolo dell’indennità di anzianità degli appartenenti al ruolo professionale degli enti pubblici non economici, non deve essere inclusa la quota degli onorari e delle competenze agli stessi spettante ai sensi dell’art. 26 della legge n. 70 del 1975 (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 9 marzo 2012, n. 3775).

5.– Tutto ciò premesso, nel merito, la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., sotto i diversi profili dedotti, non è fondata.

5.1.– Deve, anzitutto, escludersi che la nozione di stipendio assunta dalla disposizione in esame a parametro di calcolo dell’indennità di anzianità così come ricostruita dalla giurisprudenza di legittimità, continuando ad ancorare la determinazione dell’indennità di anzianità «ad un dato formale del 1975», senza che su di essa possa incidere la contrattazione collettiva, alla quale, tuttavia, nell’attuale contesto la stessa legge attribuisce «il dominio […] sugli assetti dei trattamenti economici», riveli una intrinseca irrazionalità.

Il concetto di stipendio utile alla determinazione dell’indennità di anzianità indicato dal diritto vivente è coerente con il contenuto precettivo e con la ratio della disposizione in scrutinio e concorda con la logica di fondo della legge n. 70 del 1975 e, più in generale, dell’ordinamento del pubblico impiego non contrattualizzato in cui essa si inscrive.

Parimenti rispondente alle linee sistematiche di tali discipline è l’affermazione di principio secondo la quale la regola espressa dall’art. 13 della legge n. 70 del 1975 non può essere derogata dalla fonte regolamentare, né dall’autonomia collettiva.

5.1.1.– Occorre considerare che, come risulta dalla relazione illustrativa della proposta di legge, presentata alla Camera dei deputati il 24 giugno 1972, la riforma del parastato si prefiggeva di «mettere ordine» in un settore caratterizzato da un elevatissimo numero di enti proliferati per effetto di una legislazione episodica e frammentaria, sopprimendo gli enti superflui o che avevano esaurito la loro funzione, unificando quelli che svolgevano in modo non coordinato le stesse funzioni e ristrutturando gli enti che dovevano adeguare l’organizzazione e il personale alle nuove funzioni.

Riguardo agli enti conservati dal riassetto, il legislatore intendeva ricondurre a principi unitari l’ordinamento del personale da essi dipendente, definendone lo stato giuridico e previdenziale e uniformandone il trattamento retributivo.

A tal fine, la legge n. 70 del 1975 ha ripartito la disciplina del personale tra la fonte legale, la contrattazione collettiva e i regolamenti dei singoli enti, riconoscendo alla prima un ruolo primario – come reso evidente dal tenore dall’art. 1, primo comma, a mente del quale «[l]o stato giuridico e il trattamento economico d’attività e di fine servizio del personale dipendente dagli enti pubblici individuati ai sensi dei seguenti commi sono regolati in conformità della presente legge» – e lasciando alla fonte regolamentare uno spazio soltanto residuale.

Agli accordi sindacali l’art. 26, primo comma, della legge n. 70 del 1975 ha, invece, demandato la regolamentazione del trattamento economico di attività, cui si aggiunge lo stato giuridico per la parte non prevista dalla stessa legge e non affidata ai regolamenti organici degli enti.

5.1.2.– Per quanto riguarda il trattamento di quiescenza, la disciplina dell’indennità di anzianità, come ricordato, è quasi integralmente compendiata nell’art. 13 della legge n. 70 del 1975, posto che alla fonte regolamentare è rimessa la definizione di soli aspetti marginali – e, in particolare, del riscatto degli anni di servizio ai fini del computo del trattamento –, mentre non viene riconosciuta alcuna competenza alla contrattazione collettiva.

Tale scelta legislativa si inscrive coerentemente nella cornice che ha fatto da sfondo alla riforma del 1975, nella quale il processo legislativo che avrebbe condotto alla privatizzazione del pubblico impiego era appena iniziato e, come confermato dalla ricordata relazione illustrativa della proposta di legge, ancora radicata era la concezione pubblicistica del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

La predeterminazione legale delle modalità di calcolo del trattamento di quiescenza risponde ad esigenze di controllo e di prevedibilità della spesa pubblica, tenuto anche conto che l’indennità di anzianità per i dipendenti del parastato, a differenza degli omologhi emolumenti riconosciuti ai dipendenti delle amministrazioni dello Stato e degli enti territoriali, è a totale carico dell’ente datore di lavoro.

5.2.– Ciò posto, la qualificazione giuridica cristallizzatasi nel diritto vivente oggetto di censura valorizza congruamente le specificità connotative del termine «stipendio» impiegato nell’art. 13 della legge n. 70 del 1975, il quale non può essere considerato come sinonimo di retribuzione, ma deve essere inteso nella sua specifica valenza assunta nel contesto della legge di riforma del parastato e, più in generale, nella disciplina del pubblico impiego.

Nonostante il rinvio all’autonomia collettiva, la legge n. 70 del 1975, nella prospettiva di rendere omogenee le condizioni economiche dei dipendenti di tutti gli enti interessati dal riordino, delinea essa stessa i tratti essenziali della struttura della retribuzione.

Anzitutto, l’art. 17, primo comma, stabilendo che «[n]ell’ambito di ciascuna qualifica sono previste, oltre ai normali scatti di anzianità, una o più classi di stipendio che vengono raggiunte, in base all’anzianità effettiva di servizio, dai dipendenti che non abbiano subito alcuna delle sanzioni disciplinari di cui all’articolo 11», enuclea una specifica nozione di stipendio, configurandola come una posta retributiva fissa commisurata alla qualifica del dipendente e alla classe dallo stesso raggiunta in base all’anzianità effettiva di servizio e maggiorata degli scatti di anzianità.

L’art. 26, secondo comma, prescrive, poi, che la disciplina collettiva del trattamento economico si uniformi a «norme di chiarezza in modo che ai dipendenti degli enti sia assicurata parità di trattamento economico e parità di qualifica indipendentemente dall’amministrazione di appartenenza e in modo da essere finalizzato al perseguimento di una progressiva perequazione delle condizioni giuridiche ed economiche di tutti i dipendenti pubblici».

Al medesimo obiettivo di chiarezza, oltre che di prevedibilità della spesa per il personale, risponde anche il successivo terzo comma, il quale vieta l’attribuzione di «trattamenti economici accessori ovvero trattamenti integrativi relativi a singoli enti o di categorie di enti», facendo salve le quote di aggiunta di famiglia e l’indennità integrativa speciale «nella misura e con le forme vigenti per il personale civile dello Stato».

Un’ulteriore eccezione al divieto di riconoscimento di emolumenti accessori si rinviene nel quarto comma del medesimo art. 26, ora in esame, il quale riconosce ai dipendenti appartenenti al ruolo professionale legale una quota degli onorari e delle competenze liquidate giudizialmente in favore dell’ente, demandandone la determinazione all’autonomia collettiva.

5.3.– La nozione di stipendio utile ai fini dell’indennità di anzianità elaborata dal diritto vivente collima anche con le esigenze di uniformità e di razionalizzazione che permeano le previsioni che detta legge dedica al trattamento di quiescenza.

Essa si concilia, in primo luogo, con la tecnica di computo dell’indennità di anzianità configurata dall’art. 13 della legge n. 70 del 1975.

Il trattamento di fine servizio dei dipendenti del parastato, a differenza della buonuscita dei dipendenti civili e militari dello Stato e dell’indennità premio di servizio per il personale degli enti locali, non si basa su una contribuzione del lavoratore e dell’ente datore di lavoro, né sulla sommatoria delle quote di retribuzione annuale e sul loro accantonamento in senso tecnico – come quello che si rinviene nel trattamento di fine rapporto ex art. 2120 cod. civ. –, ma sulla moltiplicazione tra l’importo dello stipendio complessivo, incrementato, cioè, degli scatti di anzianità e degli emolumenti ad essi similari, in godimento al momento della cessazione dall’impiego e il numero degli anni di servizio prestato.

Tale sistema di calcolo, essendo ancorato, a vantaggio del lavoratore, allo stipendio dell’ultimo anno di servizio («[a]ll’atto della cessazione dal servizio»), non è compatibile con il conteggio di componenti retributive variabili, posto che tali emolumenti, nell’annualità assunta a parametro, non necessariamente potrebbero essere stati percepiti dall’interessato.

5.4.– Il carattere tassativo che il diritto vivente attribuisce alla base parametrica dell’indennità di anzianità per i dipendenti del parastato trova, inoltre, riscontro in altre discipline sui trattamenti di fine servizio anteriori alla privatizzazione del pubblico impiego.

In particolare, a mente dell’art. 38 del d.P.R. n. 1032 del 1973, la base contributiva di calcolo della indennità di buonuscita per i dipendenti statali è costituita «dall’80 per cento dello stipendio, paga o retribuzione annui, considerati al lordo, di cui alle leggi concernenti il trattamento economico del personale iscritto al Fondo», nonché da una serie di assegni nominativamente individuati.

A norma dell’art. 11, quinto comma, della legge n. 152 del 1968, l’indennità premio di servizio per il personale degli enti locali va ragguagliata allo «stipendio o salario comprensivo degli aumenti periodici, della tredicesima mensilità e del valore degli assegni in natura, spettanti per legge o regolamento e formanti parte integrante ed essenziale dello stipendio stesso».

5.4.1.– Gli elementi che, alla stregua della disciplina positiva, accomunano i trattamenti di fine servizio sopra indicati all’indennità di anzianità vanno, dunque, individuati nella predeterminazione legale e nella tassatività delle componenti retributive utili al loro calcolo.

A tale riguardo, la giurisprudenza amministrativa afferma costantemente che «[p]er stabilire l’idoneità di un certo compenso a far parte della base contributiva dell’indennità di buonuscita non rileva il carattere sostanziale dello stesso (ossia se abbia o meno natura retributiva), ma esclusivamente il dato formale: vale a dire il regime impresso dalla legge a ciascun emolumento» (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 17 maggio 2017, n. 2335; nello stesso senso, ex multis, Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 20 dicembre 2011, n. 6736; TAR Lazio, sezione prima-quater, sentenza 7 aprile 2008, n. 2880).

In consonanza con tali enunciazioni, la giurisprudenza di legittimità ha, a propria volta, osservato che «la determinazione della cosiddetta retribuzione-parametro, da porre a base del calcolo di istituti di retribuzione indiretta o differita, è ricavabile esclusivamente dalla specifica disciplina di volta in volta dettata per questi ultimi», disciplina da ritenersi «esaustiva, non concorrente ed incompatibile con deroghe provenienti dalla privata autonomia, in quanto espressione di un regime pubblicistico, improntato alla cura di interessi generali, che si correlano all’onere sopportato dalla finanza pubblica» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 23 agosto 2004, n. 16582; in senso conforme, sentenze, sezione lavoro, 21 gennaio 2014, n. 1156 e sezioni unite civili, 1° aprile 1993, n. 3888).

Né va sottaciuto che la giurisprudenza di legittimità in tema di indennità premio di servizio per i dipendenti degli enti locali, ha chiarito che la retribuzione contributiva alla quale si commisura tale trattamento è costituita dai soli emolumenti testualmente considerati dall’art. 11, quinto comma, della legge n. 152 del 1968, la cui elencazione ha carattere tassativo, dovendosi interpretare la dizione «stipendio o salario» in senso restrittivo, alla luce dell’espressa menzione, come componenti di tale voce, degli aumenti periodici di anzianità, della tredicesima mensilità e del valore degli assegni in natura (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 8 maggio 2017, n. 11156).

5.5.– È, inoltre, significativo come la scelta della riforma del parastato di riservare alla legge la configurazione del trattamento di fine servizio abbia resistito alla stessa contrattualizzazione del pubblico impiego avviata dal d.lgs. n. 29 del 1993.

L’art. 2, commi 5 e 7, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare) ha, infatti, previsto che, per i dipendenti assunti dal 1° gennaio 1996, i trattamenti di fine servizio, comunque denominati, sarebbero stati regolati in base a quanto previsto dall’art. 2120 cod. civ., in materia di trattamento di fine rapporto, mentre per i dipendenti già occupati alla data del 31 dicembre 1995 – termine poi prorogato al 31 dicembre 2000 dall’art. 1, comma 1, lettera b), del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 2 marzo 2001 (Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi dei pubblici dipendenti) – erano rimesse alla contrattazione collettiva nazionale le sole modalità per l’applicazione della disciplina, di fonte legislativa, del trattamento in materia di fine rapporto.

In realtà, l’art. 4 dell’Accordo quadro nazionale in materia di trattamento di fine rapporto e di previdenza complementare per i dipendenti pubblici del 29 luglio 1999 – recepito dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 20 dicembre 1999 (Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi pensione dei pubblici dipendenti) –, al comma 1, ha disposto che «[i]l TFR si calcola applicando i criteri previsti dall’art. 2120 del codice civile sulle seguenti voci della retribuzione: a) l’intero stipendio tabellare; b) l’intera indennità integrativa speciale; c) la retribuzione individuale di anzianità; d) la tredicesima mensilità; e) gli altri emolumenti considerati utili ai fini del calcolo dell’indennità di fine servizio comunque denominata ai sensi della preesistente normativa» e, al comma 2, ha previsto che «[u]lteriori voci retributive potranno essere considerate nella contrattazione di comparto, garantendo per la finanza pubblica, con riferimento ai settori interessati, i complessivi andamenti programmati sia della spesa corrente, sia delle condizioni di bilancio degli enti gestori delle relative forme previdenziali».

Una disciplina organica sul trattamento di fine rapporto non è, però, fino a questo momento intervenuta, tanto che l’art. 69 del d.lgs. n. 165 del 2001 ha riprodotto il contenuto del citato art. 72 del d.lgs. n. 29 del 1993.

Sulla scorta di tali previsioni, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che, per il trattamento di fine rapporto ex art. 2120 cod. civ., deve aversi riguardo non agli artt. 2 e 45 del d.lgs. n. 165 del 2001, che demandano alla contrattazione collettiva la disciplina sulla retribuzione del lavoro pubblico contrattualizzato, ma, appunto, all’art. 69, il quale per il trattamento di fine rapporto mantiene ferma la disciplina vigente in attesa di un intervento di sistema, e quindi organico, da parte dell’autonomia contrattuale (Corte di cassazione, sentenza n. 5892 del 2020).

La Corte di cassazione ha anche precisato che, in attesa di tale intervento, la disciplina legislativa in vigore rimane non derogabile, neanche dalla fonte collettiva, nel senso che i contratti collettivi non possono prevedere con disposizioni isolate e frammentarie singole voci retributive da computare nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto e, ove ciò accada, la disposizione negoziale deve essere disapplicata.

5.6.– In ogni caso, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice rimettente, l’opzione interpretativa sottesa alla disposizione censurata non si espone a rilievi di anacronismo soltanto perché, in un contesto ormai ispirato al paradigma privatistico e caratterizzato dal «dominio» della fonte collettiva, per i dipendenti assunti nel vigore del regime anteriore alla contrattualizzazione del lavoro pubblico, continua ad applicarsi una disciplina di natura pubblicistica come quella qui in scrutinio.

Questa Corte ha, infatti, chiarito che «il fatto che alcuni dipendenti delle pubbliche amministrazioni godano del trattamento di fine servizio ed altri del trattamento di fine rapporto è conseguenza del transito del rapporto di lavoro da un regime di diritto pubblico ad un regime di diritto privato e della gradualità che, con specifico riguardo agli istituti in questione, il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto di imprimervi» (sentenza n. 244 del 2014).

Spetta, infatti, all’apprezzamento discrezionale del legislatore, in coerenza con il generale canone di ragionevolezza, delimitare la sfera di applicazione delle normative che si succedono nel tempo, né contrasta di per sé con il principio di eguaglianza il trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie in momenti diversi nel tempo (sentenze n. 240 del 2019 e n. 104 del 2018).

6.– Neanche la questione con cui è dedotta la violazione del principio di eguaglianza merita accoglimento.

6.1.– Il giudice rimettente, nel porre a raffronto i dipendenti degli enti pubblici non economici appartenenti al ruolo professionale legale e i dipendenti dei medesimi enti – e, in particolare, i lavoratori con qualifica dirigenziale – che non svolgono funzioni legali, non ha considerato che le posizioni in comparazione sono del tutto eterogenee.

Non deve, infatti, trascurarsi che, come osservato da questa Corte, gli avvocati dipendenti degli enti pubblici costituiscono un unicum e pertanto non possono essere paragonati ad altre categorie di dipendenti (sentenza n. 33 del 2009).

Non può, al contempo, sottacersi che gli stessi dirigenti, anche nell’assetto delineato dalla legge n. 70 del 1975, sono sottoposti ad un regime giuridico e ad un trattamento economico specifici, come reso evidente dal contenuto dell’art. 18 della legge citata.

In definitiva, il diverso status giuridico ed economico delle categorie di lavoratori poste a raffronto inficia il giudizio di comparazione richiesto dal rimettente (sentenza n. 200 del 2023).

7.– È, infine, da escludersi la dedotta violazione del principio di proporzionalità di cui all’art. 36 Cost.

7.1.– Il giudice a quo muove da una corretta premessa ermeneutica nell’affermare che la configurazione dei trattamenti di fine servizio come retribuzione differita, sia pure con concorrente funzione previdenziale, attrae le prestazioni in esame nell’ambito applicativo delle garanzie sancite dall’art. 36 Cost., il quale, come ripetutamente affermato da questa Corte, «prescrive, per ogni forma di trattamento retributivo, la proporzionalità alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e l’idoneità a garantire, in ogni caso, un’esistenza libera e dignitosa» (sentenza n. 159 del 2019; in senso conforme sentenza n. 130 del 2023).

Tale affermazione deve, tuttavia, essere coordinata con l’enunciazione, altrettanto sedimentata nella giurisprudenza costituzionale, secondo la quale lo scrutinio sulla conformità di una disciplina sulla retribuzione – e dunque anche sulla retribuzione differita – all’art. 36 Cost. non può essere svolto atomisticamente, dovendo investire il trattamento economico del lavoratore nel suo complesso (ex aliis, sentenze n. 200 del 2023, n. 27 del 2022, n. 71 del 2021, n. 236 del 2017 e n. 96 del 2016) e non i singoli elementi che lo compongono, né le prestazioni accessorie (sentenza n. 164 del 1994).

7.2.– Se, dunque, è innegabile che l’indennità di fine servizio debba essere «rapportata alla retribuzione e alla durata del rapporto e quindi, attraverso questi due parametri, alla quantità e alla qualità del lavoro» (sentenza n. 243 del 1993) e, pertanto, trovi nel trattamento economico di attività la sua base parametrica, tuttavia, affinché possano ritenersi rispettati i canoni di sufficienza e di proporzionalità di cui all’art. 36 Cost., non deve sussistere una corrispondenza pedissequa tra la composizione dei due emolumenti, tale per cui ogni singola voce della retribuzione debba essere considerata nel trattamento di quiescenza.

7.2.1.– A tale riguardo, occorre, ancora una volta, ricordare che la disciplina dei trattamenti di fine servizio anteriore alla privatizzazione del pubblico impiego è caratterizzata dalla preminenza della fonte legale, la quale si coniuga con l’indole pubblicistica del rapporto di lavoro non contrattualizzato e risponde ad esigenze di razionalizzazione e di chiarezza, di prevedibilità e di controllabilità della spesa pubblica.

Va, inoltre, ribadito che, in tale contesto normativo, spetta alla discrezionalità del legislatore individuare, nel rispetto del principio di eguaglianza e delle garanzie sancite dall’art. 36 Cost., la base retributiva delle singole indennità di fine servizio nonché i modi e la misura delle stesse (sentenze n. 278 del 1995, n. 243 del 1993, n. 151 del 1976 e n. 251 del 1974).

In un sistema siffatto, non è, dunque, sufficiente addurre la natura retributiva di un compenso per ritenere che la sua mancata considerazione ai fini del trattamento di fine servizio confligga con la garanzia della proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla qualità del lavoro svolto.

Tale principio deve, invece, ritenersi osservato allorché detto trattamento esprima, in proporzione, il nucleo del profilo retributivo riconosciuto al dipendente, coincidente con il trattamento economico fondamentale.

7.2.2.– Nel rapporto di lavoro pubblico non contrattualizzato il trattamento fondamentale indica, infatti, il corrispettivo principale dell’attività lavorativa ed è inteso a remunerare la professionalità media del lavoratore. Esso comprende componenti, come lo stipendio tabellare, gli incrementi dipendenti dall’anzianità di servizio, la tredicesima mensilità e l’assegno per il nucleo familiare (oggi, assegno unico), che spettano in modo fisso e continuativo.

A detto trattamento possono aggiungersi emolumenti accessori, caratterizzati dalla eventualità e dalla variabilità, come il compenso per lavoro straordinario e le indennità speciali volte a compensare lo svolgimento di attività particolarmente disagiate, pericolose o dannose per la salute, ovvero a premiare la produttività individuale o collettiva.

7.3.– Tanto premesso, l’interpretazione della Corte di cassazione, secondo la quale la “quota onorari”, riconosciuta dall’art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 agli avvocati degli enti pubblici non economici, non rientra nella nozione di retribuzione fondamentale, non determina la violazione dell’art. 36 Cost.

7.3.1.– Secondo la giurisprudenza di legittimità, tali competenze costituiscono un’attribuzione di carattere accessorio e variabile che si aggiunge alla retribuzione contrattuale (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 11 dicembre 2018, n. 31989; 5 luglio 2017, n. 16579).

7.3.2.– Il carattere accessorio dei compensi in esame, come già evidenziato, si ricava dall’art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975, nel quale il riconoscimento agli appartenenti al ruolo professionale delle competenze e degli onorari liquidati giudizialmente è oggetto di una previsione speciale e derogatoria del divieto di attribuzione di trattamenti economici accessori sancito, al terzo comma, in consonanza con l’obiettivo programmatico di chiarezza e di prevedibilità della spesa per il personale che pervade l’intero testo della riforma del parastato.

7.3.3.– Il carattere variabile degli onorari ex art. 26 della legge n. 70 del 1975 si desume, invece, dallo stesso sistema di erogazione di tale emolumento, il quale è condizionato dall’esito delle controversie in cui è parte l’ente pubblico patrocinato dai funzionari del ruolo professionale. Non si tratta, infatti, di un compenso fisso e predeterminato, ma dipendente dall’elemento aleatorio costituito dal numero delle cause vinte dall’ente e dalle somme che l’ente è riuscito a riscuotere dai terzi soccombenti.

Ai sensi dell’art. 30, secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 maggio 1976, n. 411 (Disciplina del rapporto di lavoro del personale degli enti pubblici di cui alla legge 20 marzo 1975, n. 70) – il quale ha recepito il primo accordo sindacale attuativo dell’art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 –, ai suddetti funzionari è, infatti, attribuita una quota delle somme «riscosse dall’ente a titolo di competenze di procuratore ed onorari di avvocato».

Per quanto concerne l’INAIL, il regolamento per la corresponsione dei compensi professionali degli avvocati, adottato dal Commissario straordinario dell’INAIL con la deliberazione n. 788 del 2003, ha poi previsto che il bilancio dell’Istituto sia munito di un apposito capitolo di spesa, coperto da un fondo specifico che viene alimentato secondo due differenti ipotesi. In un primo caso, di vittoria in giudizio dell’Istituto, le spese legali, poste a carico della controparte e riscosse dallo stesso ente a seguito di sentenza, ordinanza, decreto, rinuncia o transazione, la “quota onorari” è commisurata all’intera parcella professionale, dedotte le spese vive di procedura e le eventuali competenze spettanti ad avvocati esterni. Diversa è l’ipotesi in cui l’Istituto liquida il cinquanta per cento dei compensi professionali ai propri avvocati, nonostante non abbia riscosso tali compensi o perché è intervenuta una transazione a seguito di sentenza favorevole o perché è stata pronunciata compensazione, anche parziale, delle spese in cause nelle quali l’ente non è rimasto soccombente.

Un analogo meccanismo di attribuzione è stato successivamente delineato dagli artt. 4 e 5 della determinazione del Presidente dell’INAIL 21 gennaio 2015, n. 16, con la quale è stato approvato un nuovo «Regolamento per la corresponsione dei compensi professionali degli avvocati Inail» a decorrere dal 1° gennaio 2015.

7.3.4.– La natura premiale dei compensi in questione si desume anche dalla correlazione dell’importo degli stessi con il numero delle cause in cui l’ente di riferimento risulti vittorioso e con le somme che lo stesso ente sia riuscito a riscuotere dai terzi soccombenti.

Essi, infatti, sebbene non vengano accordati soltanto ai legali che hanno patrocinato le cause con esito favorevole, ma vengano ripartiti tra tutti gli avvocati in base a criteri predeterminati e in rate costanti, salvo conguaglio, nel loro ammontare complessivo assumono una funzione remunerativa della complessiva produttività degli appartenenti al ruolo professionale legale dell’ente pubblico.

Deve, poi, considerarsi che detta funzione premiale e incentivante degli onorari è stata riconosciuta da un’apposita disciplina, la quale, pur non trovando applicazione nella fattispecie oggetto del giudizio principale, attesta significativamente l’evoluzione di un profilo funzionale che ha sempre connotato l’istituto in esame.

Il d.l. n. 90 del 2014, come convertito, all’art. 9, comma 5, ha, infatti, stabilito che i regolamenti dell’Avvocatura dello Stato e degli altri enti pubblici e i contratti collettivi prevedono criteri di riparto delle somme recuperate nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti, «in base al rendimento individuale, secondo criteri oggettivamente misurabili che tengano conto tra l’altro della puntualità negli adempimenti processuali».

In attuazione delle disposizioni introdotte dalla novella del 2014, la ricordata determinazione del Presidente dell’INAIL del 21 gennaio 2015, n. 16, all’art. 7, ha dettato ulteriori criteri speciali di riparto, stabilendo che gli importi degli onorari riscossi a carico delle controparti a seguito di provvedimenti giudiziali sono corrisposti a ciascun avvocato, in base al rendimento individuale rilevato, anche con l’ausilio di strumenti informatici, tenendo conto di una serie di parametri.

7.3.4.1.– Indici rivelatori del carattere premiale degli onorari in disamina si rinvengono anche nella disciplina riguardante i legali degli enti locali, i quali condividono con gli avvocati dipendenti degli altri enti pubblici la matrice normativa.

L’art. 3 del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, nella legge 22 gennaio 1934, n. 36, al quarto comma, lettera b), nel sancire la compatibilità dell’esercizio della professione forense nell’ambito di un rapporto di pubblico impiego, faceva, infatti, rinvio agli enti pubblici enumerati al secondo comma della medesima disposizione tra i quali figuravano, oltre allo Stato, anche gli enti locali.

Attualmente, l’art. 23, comma 1, della legge 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense), nel conformare la peculiare figura del professionista legale incardinato presso una pubblica amministrazione e al quale è affidato lo ius postulandi nell’interesse di quest’ultima, fa riferimento agli avvocati degli uffici legali istituiti presso «enti pubblici», senza ulteriori distinzioni.

7.3.4.2.– Anche nell’ordinamento degli enti locali i compensi professionali liquidati giudizialmente in favore dell’amministrazione sono sempre stati attribuiti agli avvocati da essa dipendenti, dapprima in forza dell’art. 69 del decreto del Presidente della Repubblica 13 maggio 1987, n. 268 (Norme risultanti dalla disciplina prevista dall’accordo sindacale, per il triennio 1985-1987, relativo al comparto del personale degli enti locali) e successivamente sulla base delle previsioni dei regolamenti dei singoli enti.

La natura premiale di tali emolumenti trova conferma nel decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118 (Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42), il quale, al punto 5.2. dell’Allegato 4/2, nell’individuare i principi contabili per le «spese relative al trattamento accessorio e premiante», precisa, con riguardo alla spesa nei confronti dei dipendenti addetti all’Avvocatura, che, poiché la normativa prevede la liquidazione dell’incentivo solo in caso di esito del giudizio favorevole all’ente, si è in presenza di una obbligazione passiva condizionata al verificarsi di un evento con riferimento al quale non è possibile impegnare alcuna spesa.

Detto carattere si desume anche dalle disposizioni di fonte collettiva che – come l’art. 27 del contratto collettivo nazionale di lavoro per il personale del comparto delle regioni e delle autonomie locali successivo a quello del 1° aprile 1999, firmato il 14 settembre 2000, e l’art. 37 del contratto collettivo nazionale di lavoro relativo al comparto regioni-enti locali, Area della dirigenza 1998-2001, sottoscritto il 23 dicembre 1999 – evidenziano l’esigenza di coordinarne l’erogazione con il riconoscimento della retribuzione di risultato spettante agli avvocati che rivestono anche una posizione di coordinamento dell’ufficio legale.

7.4.– All’univocità degli indici normativi di cui si è dato conto si aggiunge la considerazione per la quale il compenso in questione non può essere ricondotto nel trattamento economico fondamentale, perché non compensa la professionalità media dei soggetti che ne beneficiano, a ciò provvedendo la retribuzione contrattuale corrispondente allo status di pubblico dipendente riconosciuto ai legali degli enti pubblici (sentenza n. 928 del 1988).

Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice rimettente, oltre che dalla parte privata e dall’amicus curiae, gli onorari ex art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 non costituiscono la normale retribuzione del patrocinio svolto dai legali del parastato dovuta in aggiunta allo stipendio in ragione della specificità di tale attività.

La difesa in giudizio dell’ente rientra tra i compiti riconducibili ai doveri istituzionali degli avvocati degli enti pubblici e per questo non necessita di un’apposita remunerazione. Ciò che distingue i legali dagli altri dipendenti dell’ente pubblico è, invero, soltanto il possesso dell’abilitazione all’esercizio della professione forense, la quale, tuttavia, non assume rilevanza sul piano retributivo, ma sotto il diverso profilo dell’osservanza, da parte del legale pubblico dipendente, degli stessi obblighi deontologici dell’avvocato libero professionista e della soggezione al potere disciplinare del Consiglio dell’ordine (TAR Lazio, sezione terza-quater, sentenza 13 aprile 2011, n. 3222).

7.5.– Il carattere di retribuzione ordinaria dell’emolumento in esame non può trarsi neppure dalla sua pur significativa entità rispetto alla retribuzione complessiva.

Non possono, in proposito, essere trasposte nella fattispecie in scrutinio le considerazioni svolte da questa Corte nella sentenza n. 243 del 1993 in merito al contrasto con il principio di proporzionalità ex art. 36 Cost. della mancata inclusione nella base di calcolo dell’indennità di anzianità dell’indennità integrativa speciale e, in particolare, all’incidenza quantitativa di tale componente sulla retribuzione dei dipendenti e quindi del trattamento di fine servizio.

Deve, infatti, osservarsi che l’emolumento allora scrutinato da questa Corte non aveva natura accessoria, essendo deputato ad adeguare la stessa retribuzione fondamentale alle variazioni del potere di acquisto della moneta a causa dell’inflazione, tanto che, successivamente alla citata pronuncia costituzionale, è stato inglobato nello stipendio base.

Nel caso ora in esame, invece, la valorizzazione del dato quantitativo ai fini della qualificazione dell’emolumento in questione si risolverebbe nell’assimilazione di tale posta accessoria alla retribuzione fondamentale in senso proprio, attraverso un apprezzamento della sua sostanza retributiva che, come confermato tanto dalla giurisprudenza di legittimità, quanto da quella amministrativa, confligge con il limite di sistema costituito dalla tassatività e dalla qualificazione legale delle componenti della base di calcolo dei trattamenti di fine servizio soggetti alla legislazione anteriore alla privatizzazione del pubblico impiego (Consiglio di Stato, sentenza n. 2335 del 2017).

7.6.– Da ultimo, la qualificazione degli onorari ex art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 in termini di remunerazione ordinaria non si concilia neppure con quanto affermato da questa Corte sulla natura delle cosiddette propine spettanti agli avvocati e ai procuratori dello Stato.

Queste ultime forme di remunerazione, pur essendo soggette ad una autonoma disciplina, non differiscono, infatti, sotto il profilo morfologico e funzionale, dalle competenze maturate dai dipendenti delle altre avvocature pubbliche in ragione dell’attività difensiva svolta in giudizio, trattandosi pur sempre di una retribuzione accessoria che si aggiunge allo stipendio tabellare e rinviene almeno parte della provvista nelle spese di lite rifuse all’amministrazione in caso di vittoria in giudizio.

Questa Corte ha, in particolare, osservato che le cosiddette propine spettanti agli avvocati e ai procuratori dello Stato sono di natura variabile «perché dipendenti dalla sorte del contenzioso» ed hanno carattere premiale (sentenza n. 128 del 2022) e non intaccano lo stipendio tabellare, che costituisce il nucleo del profilo retributivo della categoria interessata (sentenza n. 236 del 2017).

8.– Alla luce delle considerazioni che precedono, le questioni devono, pertanto, essere dichiarate non fondate.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge 20 marzo 1975, n. 70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Maria Rosaria SAN GIORGIO, Redattrice

Igor DI BERNARDINI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 aprile 2024

Il Cancelliere

F.to: Igor DI BERNARDINI

Allegato: Ordinanza letta all'udienza del 6 febbraio 2024